Recensione Franco Martino (poeta e saggista) del romanzo Sia fatta la mia volontà – Qui nel mondo di Domenico Esposito Mito

Luglio 2001: nella caserma di Bolzaneto, Demetrio ha subito atroci torture ad opera della polizia, per aver partecipato alla manifestazione dei No-global contro il G8 a Genova. Non riesce più a dormire tranquillo, soffre di incubi e allucinazioni. Coperto di ferite materiali e morali, resterà traumatizzato per tutta la vita: come potrebbe dimenticare? Tra i suoi amici troviamo Ciro, Angelo, Miriam (che ha subito un simile trattamento nella caserma Raniero a Napoli, pochi mesi prima) e tutti vorrebbero aiutarlo a riconquistare una vita normale, ma non ci riescono. Durante una festa al Centro Sociale a Napoli, Demetrio trascina il suo amico Paolo in un grave episodio di vendetta, restituendo a tre giovani fascisti lo stesso trattamento che ha subito lui a Bolzaneto, ma Paolo ne resta profondamente turbato, affetto da sensi di colpa, fino a sfiorare il suicidio. Demetrio rivede col pensiero la sua infanzia, la morte violenta del padre, ucciso da alcuni sicari della camorra, ma non conosce la verità, qualcuno gli ha detto che il padre fosse un camorrista, ma lui non ci crede, anche se a volte quel dubbio lo sfiora. Rivede episodi della sua vita scolastica da tredicenne, il professore che lo maltrattava, ha sogni di mostri e incubi notturni, voci che lo incitano e lo perseguitano: “Uccidli, distruggili” e lui confessa a se stesso: “Se sono diventato cattivo, è perché mi hanno trattato con cattiveria”. Demetrio ha un fratello carabiniere, che ha scoperto la sua aggressione ai tre fascisti, lo fa condannare e lo manda in carcere. E lì ha la conferma che suo padre non era un camorrista, anzi fu la camorra ad ucciderlo proprio perché si batteva contro di essa. Demetrio esce dal carcere e va agli arresti domiciliari. Ora il suo impegno è contro la camorra. Vuole vendicare il padre. Ciro cerca di dissuaderlo: “Con la vendetta non si risolve nulla”. Il romanzo non si chiude nel pessimismo e nella disperazione: lascia aperta una speranza. Le parole di Ciro nell’epilogo possono prendersi a suggello del romanzo: “Ma io non perdo la speranza, continuerò a credere in un mondo migliore”. L’autore ha dichiarato in un’intervista: “non mi limito a parlare dei fatti di Genova 2001, ma faccio un’analisi delle ideologie, della politica, delle religioni e dell’ateismo. Quando nella realtà accadono troppe cose negative, non possiamo far finta di nulla. In fondo anche raccontare cose negative è un modo per combatterle, inducendo il lettore alla riflessione”. E’ questa la funzione civile e culturale della letteratura di denuncia. Il romanzo è anche una storia di grandi amicizie e solidarietà, in un mondo in cui spesso non si concepisce la comprensione per uno che ha commesso qualche sbaglio, il quale, invece, ha soprattutto bisogno di essere capito. E lancia un messaggio, un appello. Sta al lettore coglierlo. E’ il messaggio di Demetrio e dello scrittore, ma anche di tutti gli oppressi. Non è un romanzo d’evasione. E’ un ibrido tra romanzo e saggio politico-sociale, introspettivo e sociologico, arricchito da ampie riflessioni (sia nella narrazione che nei dialoghi). Demetrio non si riprende più dal trauma subito. Si porta dentro una rabbia inguaribile; anche per questo è un personaggio profondamente umano: ogni uomo è debole. E’ letteratura di denuncia, sulla scia e nel filone della grande narrativa di Pasolini, Calvino, Levi, Pavese, Vittorini. E’ un contributo alla ricerca della verità sugli avvenimenti terribili di Genova 2001, su quei problemi che furono messi troppo presto a tacere. I fatti di Genova 2001 esprimevano la protesta giovanile, la presa di coscienza contro un sistema tanto antidemocratico, ingiusto e violento, quanto rovinoso. Oggi ne vediamo le conseguenze. Cosa resta oggi di quegli avvenimenti nella memoria della gente? Quali informazioni passarono allora? Che cosa ci hanno raccontato, e che cosa ci hanno nascosto? Chi ha mai parlato delle ragioni della protesta, dei valori, ideali, sogni di quei giovani? Per che cosa si battevano? Quei giovani hanno insistentemente ribadito che non sono contro la globalizzazione in sé, ma contro quella che globalizza solo merci e mercati, capitali e banche, ma volevano la globalizzazione dei diritti umani, della giustizia e del benessere sociale. Un altro mondo possibile. Questo libro non è solo frutto della fantasia dello scrittore, ma è basato su documenti e testimonianze. Vuol essere anche un invito all’informazione, a non cadere vittima dei messaggi interessati che ci ha propinato il potere politico e mediatico. Ed anche un incitamento all’impegno: in modo pacifico, riformistico, come vuole Ciro, per migliorare il sistema, o rivoluzionario, come Demetrio che lo vuole abbattere. La società dal 2001 ad oggi è cambiata, dopo la sconfitta dei No global. E’ cambiata in meglio o in peggio? La realtà è sotto gli occhi di tutti, e non ha bisogno di commenti: “Parole non ci appulcro”, direbbe Dante. E di nuovo oggi siamo di fronte al dilemma: che fare? Arrendersi, o rilanciare e continuare la lotta? C’è nel libro una venatura di pessimismo, alla luce di quell’esperienza, ma c’è anche la speranza: il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, diceva Gramsci, in tempi e condizioni assai peggiori delle nostre. L’editore Zanello, nella prefazione al libro, fa riferimento ai fatti storici di Genova del 1960 (ai giovani con le magliette a strisce), ai morti di Reggio Emilia, alle cariche poliziesche contro gli studenti del ’68. Ma le repressioni sanguinose contro operai, contadini e braccianti si ebbero nel 48, a Portella della Ginestra, in Sicilia, con la partecipazione attiva della mafia, nel 22 con i fascisti, nella Milano del 1898, ordinata col generale Bava Beccaris (detto il macellaio). La lotta dei popoli per la giustizia sociale, e per rivendicare pane, lavoro, pace, libertà, è stata cento volte repressa nel sangue e non è mai stata un pranzo di gala (direbbe Mao). Si pensi alla strategia della tensione, alla strage di Piazza Fontana a Milano ’69 con le vicende di Pinelli e Valpreda, al treno Italicus, alla stazione di Bologna, ai treni in Calabria, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. La repressione si serve sempre anche di infiltrati e provocatori ben remunerati, dove non prevale la ragione, ma l’irrazionale, la violenza. C’è un abisso, nessun paragone possibile tra i metodi dei manifestanti, quasi sempre disarmati e pacifici, perché mirati ad obiettivi di giustizia, e gli strumenti della repressione violenta. Solo qualche mese fa decine di minatori in Sudafrica sono stati ammazzati perché volevano uscire dallo stato di schiavitù. Oggi vediamo operai che protestano sulle gru, sui tetti o nelle miniere a centinaia di metri di profondità, mentre gli studenti nelle piazze (i loro figli) vengono caricati con violenza. Ecco l’importanza e il senso di questo libro. E’ un libro stimolante, di scottante attualità, perché affronta temi vitali, di ieri, di oggi, e domani, e li affronta dal punto di vista dei giovani, e della parte più debole della società. Ed ha il grande pregio di colmare un vuoto e riproporre problemi irrisolti, avendo il quadro storico da un lato, e il problema politico dall’altro. E’ uno spaccato che penetra a fondo nel mondo giovanile, e c’introduce nella loro dimensione politica e culturale con opportune riflessioni di carattere sociologico, ma anche filosofico e religioso. Il suo oggetto privilegiato è l’individuo, in rapporto col mondo e con se stesso, in una situazione di incontro-scontro con i problemi della società. La crisi che stiamo vivendo non è soltanto economica, ma soprattutto politica, morale e culturale. E il romanzo di Esposito elabora un senso in questo mondo del non senso, della realtà alienante: e questo senso è l’utopia di un mondo conciliato, più libero, più giusto, più umano. E si appella alla ragione, come principio unificante, Qui è l’eticità del lavoro letterario, nel rapporto con la realtà, non nell’astrazione della fantasia.

Dalla scuola dei formalisti russi sull’analisi della tecnica narrativa, prendiamo la categoria dell’intreccio,sul piano del contenuto: la costruzione del romanzo avviene su un pluralismo di materiali elaborati, personaggi, eventi, oggetti … e la loro sintesi in ragionamenti morali, filosofici, scientifici..sul piano dello stile: l’unità formale è assunta al ruolo di forma-valore, tra i dialoghi, richiami, rievocazioni, frequenti flash back, da cui deriva il senso complessivo dell’opera..La lingua del romanzo è sempre discorsiva (mentre quella poetica è individuale), è narrativa, dialogica, plurale, dove si mescolano punti di vista diversi, diverse visioni del mondo e della realtà. E questa lingua tende ad unificarsi, nella reciproca comprensione dei personaggi, con una perfetta caratterizzazione storico-sociale. L’autore dimostra di privilegiare un linguaggio schietto e genuino, adeguato alla materia trattata, senza peli sulla lingua e senza autocensure.

Per Gyorgy Luckas il romanzo storico è una sintesi che si oppone al magma esistenziale, per ricostruire il senso perduto della realtà, e in essa ritrova la propria natura e funzione. La ritrova nel suo carattere ibrido, polivoco, nell’incontro e nello scontro, e nell’interscambio tra testo e contesto, e in esso acquisisce la sua fisionomia. Diventa così un microcosmo della pluralità sociale. Non letteratura d’evasione, dell’immaginario e della fantasia, ma letteratura d’impegno, che affronta i problemi, li scava e li scandaglia. Quella dell’autore è una voce insieme narrativa e riflessiva, che vuole rispondere ad esigenze di chiarezza. E ci fornisce i dati strutturali del testo su piani testuali, sia quello formale-superficiale, che quello tematico-profondo, come quello del turbamento e della rabbia di Demetrio, che, l’invade in modo indelebile, irreversibile, divenendo un segno ideologico e strutturale del romanzo. E ci rimanda al poliziesco, alla società violenta e repressiva. Collocato, invece, sull’extratestuale, il camorrista, resta quasi sempre fuori scena, ma pesa sullo sfondo con la sua ombra lunga e nera. Il personaggio di Demetrio ha una sua spiccata personalità letteraria (anche rispetto agli altri personaggi), proprio grazie alle sue vicende, alle idee che professa, ai comportamenti che lo contraddistinguono, alle difficoltà nel rapporto con il suo passato, depositato nel sottofondo della sua vita quotidiana. Ecco un esempio di intreccio inter ed extratestuale. La pratica della scrittura è essenzialmente solitaria rispetto al parlato. L’altra faccia della scrittura è la lettura. Per leggere bisogna mettersi dalla parte di chi ha scritto e ripercorrere in qualche modo il suo cammino. Questo racconto, come sappiamo, nasce dai fatti collettivi e individuali; nessun rapporto retorico tra i giovani protagonisti e gli antefatti di Genova. Essi si presentano in chiave antieroica ed antiretorica e non con l’atteggiamento dei reduci, pur con l’autorità testimoniale di chi ha visto le cose dall’interno. Ma il distacco totale è difficile, se non impossibile. E’ l’io narrante, che è l’autore stesso, che interviene frequentemente in prima persona, per apportare chiarimenti, commenti o collegamenti, il che conferisce al romanzo una grande forza evocativa ed espressiva. In ciò lo scrittore rivela una notevole abilità di sintesi, nonché precisione e vivacità descrittiva. Il libro non tende a trasformarsi in universo autonomo, ma a recuperare il rapporto con l’extratestualità, già nota al lettore, o lo spinge ad informarsi. Anche per questo è un romanzo-saggio politico, che spiega e chiarisce di più e meglio di tanti saggi “puri”, recuperando e giustificando in pieno la sua dimensione letteraria e storico-ideologica. Contro la macchina TV-stampa, che produce la mistificazione del consenso, occorrono opere come questa, che apporta più utilità alla causa della verità che tanti discorsi politico-retorici: per questo, forse, non è piaciuto a qualcuno. Dice Marx: ci fa capire più cose sulla società borghese un romanzo di Balzac, che cento saggi di economia e storia. Tuttavia lo scrittore non esce dalla letterarietà, pur dando vita ad un mix di psicologia, sociologia, ideologia (di cui non fa mai mistero, non tende a nasconderla con ipocrisia). Quasi come il P.P. Pasolini di “Petrolio”, dove è privilegiata la costruzione ideologica, oltre che psicologica e letteraria. E come Pasolini, il nostro autore è “schierato”, non è neutrale, aderisce alla cultura dei suoi personaggi. Lo spaccato storico, è anche epico, attraverso le storie dei personaggi, per la pluralità delle voci, e lirico perché vi si legge lo sguardo emozionato dell’autore, che dà voce alla voce narrazione-denuncia. Ma non manca qualche pagina impostata più chiaramente sul registro lirico, soprattutto nei personaggi femminili: Miriam che medita sulla spiaggia, le lacrime di Marina, il suo rapporto con Vittoria e la sincera solidarietà tra le due amiche (come Adalgisa e Norma), la dolce e timida Nicole…ma anche Paolo che piange come un bambino. Domenico Esposito non indugia in un descrittivismo fine a se stesso, ma mira a focalizzare personaggi e situazioni. E come in “Petrolio” di Pasolini mette insieme saggistica e romanzo, e acuta analisi politica. Un romanzo nato dalla tensione morale di una generazione, da utopie, lirismi, debolezze, sfruttando tutti i colori di una tavolozza storica che richiama i giovani del 68, quando erano giovani i sessantenni di oggi. C’è perfetta continuità nelle idee e nelle lotte dei padri e dei figli, o anche dei nonni, che vissero l’esperienza partigiana (come dice l’editore nella prefazione). Stagioni letterarie e politiche l’una e le altre, piene di passioni e di significati. Ma non si conclude il libro con la riflessione amara sulle sconfitte. Ci fa pensare ai grandi maestri, Levi, Pavese, Calvino, rigorosi testimoni della loro epoca. Su quel filone s’inserisce questo lavoro di Domenico Esposito.

Qui c’è una lucida autocoscienza dell’autore del personaggio Demetrio nel fornirci queste chiavi di lettura del libro: la non accettazione della situazione data; lo scatto della volontà attivo e cosciente; l’ostinazione permanente; l’io narrante, spesso commentatore, sempre vigile e pronto ad intervenire direttamente sui lettori (come metodo letterario appare molto efficace); dialettica stretta tra realtà e finzione letteraria; Lo scavo psicologico, nella società che espelle l’elemento perturbatore, e allontana da sé la propria coscienza infelice. La tecnica narrativa non reticente, dove emerge chiaro anche il non detto; la presenza costante del tema dell’utopia.

Già nelle Candide di Voltaire si sottolinea il primato di un impegno pratico, responsabile, per cui l’individuo è giudicato non più nel suo rapporto col trascendente, ma per quel poco o tanto che può fare. Qui traspare una tensione lunga, permanente, come una partita che è sempre aperta, e non si chiuderà mai, se non con la realizzazione dell’ideale. E’ questa la volontà irriducibile che Calvino, e con lui Pavese, Levi, Vittorini, avvertono come motivazione principale della loro attività letteraria e della loro scrittura. Calvino richiama l’ambivalenza dei volti della Resistenza: da un lato come lotta legalitaria, contro la dittatura e la violenza fascista, dall’altro come fatto rivoluzionario, come ribellione degli oppressi, exlege da sempre, e qui sembra di leggere la dialettica tra le idee strategiche di Ciro e Demetrio. Dinanzi alla letteratura della descrizione rassegnata del labirinto capitalistico, del pietismo apocalittico, del negativo, Calvino difende il razionalismo della neo avanguardia: per chi si scrive un romanzo? Per un lettore che cambi se stesso, e la scelta non è solo estetica, ma anche e soprattutto morale. La letteratura è necessaria alla politica in quanto dà voce a ciò che è senza voce, dà nome a ciò che il linguaggio politico esclude. E’ come un orecchio che può ascoltare al di là del linguaggio che la politica intende, come un occhio che può vedere dove gli altri non vogliono vedere. Per lungo tempo la letteratura ha lavorato per la conferma, l’accettazione dell’autorità, poi si fece iniziatrice di un processo in senso contrario, con la critica ed il rifiuto, e si sviluppò una nuova etica, intellettuale e culturale. Nella sfida al labirinto c’è una scelta di campo chiara e netta: è la linea razionalista dell’avanguardia contro le posizioni evasive e consolatorie.

La sfida del labirinto è il contrario della resa. Così il testo esce dall’opaco (per citare ancora Calvino), per acquistare un senso forte, compiuto. L’opacità è preliminare alla conoscenza. La lettura si dirige verso l’origine del testo, dove risiede la sua intentio operis, il suo primo germe, il dato contingente da rilevare per inserirlo nel più vasto quadro della letteratura e della vita a cui il testo opaco rimanda. E spesso, quasi sempre, vi trova l’utopia. L’utopia è vedere un possibile mondo diverso come già compiuto ed operante, è un grande appiglio di forza, incrollabile contro il mondo ingiusto, è negare la sua necessità esclusiva, l’utopia è una prospettiva aperta.

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